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di Marco Geddes da Filicaia
25 GEN –
Gentile Direttore,
ho letto con interesse i due articoli di Banchieri e Vannucci su Pubblico e privato in sanità e come questi possano (o debbano, per gli autori) interagire secondo criteri di “integrazione, sussidiarietà e cooperazione”.
Affinché ciò si realizzi vi sono alcuni presupposti, che l’articolo esplicita con chiarezza: 1. Un adeguato finanziamento del SSN, che “…non dovrebbe mai essere inferiore al 7-7,5 % del PIL …coerente con l’indispensabile aumento della quota economica destinata alla sanità che è necessaria per far fronte alla combinazione di inflazione, aumento dei redditi, innovazione tecnologica e invecchiamento della popolazione”. 2. Una pianificazione e regolamentazione efficace da parte dello Stato e delle Regioni, poiché è il “pubblico” che “…ha i dati e la visione di insieme per svolgere analisi di stratificazione dei bisogni di salute” e che “può – sempre citando l’articolo dei due colleghi – e deve svolgere questo lavoro di riallineamento degli interessi “privati” presenti nelle filiere assistenziali su obiettivi di salute generali”.
Gli articoli citati non affrontano un aspetto, che anch’io non approfondirò in questa nota, ma che mi limito brevemente a citare e che viene definito con un neologismo: “privatocrazia”. La salute rappresenta un diritto fondamentale dell’individuo e l’accesso ai servizi sanitari una funzione essenziale per la fruibilità di tale diritto. Ne consegue che, in tale ambito, la morale pubblica obbliga a porre limiti di natura costituzionale alla privatizzazione di tali funzioni (analogamente ad altri ambiti: giustizia, esercito, sistema carcerario ecc.) per non trasferire poteri, responsabilità e discrezionalità significative ai privati. Esternalizzazioni massive (si tratta ovviamente di quantificarle) comportano inoltre un depauperamento di competenze pubbliche e conseguentemente anche una incapacità a esercitare un controllo efficace. Inoltre solo all’interno di un sistema democratico – quale quello garantito dal sistema pubblico – nessun cittadino rimane soggetto alla volontà meramente privata e unilaterale di un altro.
I due “presupposti” sopra citati, (finanziamento e pianificazione/regolamentazione) che gli autori richiamano, comportano di affrontare alcuni “fondamentali” della politica economica nazionale (e non solo) che è necessario tenere presenti per evidenziare la complessità – o anche i limiti – di ipotesi e proposte.
Il primo elemento concerne la disponibilità e la volontà di incrementare il Fondo sanitario fino al 7,5% del Pil, come richiesto anche da varie Regioni. L’attuale Governo non offre tale prospettiva (ma quelli precedenti – al di là dell’emergenza Covid – non hanno offerto molto di più!). Si tratta infatti di un obiettivo impossibile, senza mettere in discussione non solo un qualche riequilibrio fra settori del welfare (Pensioni rispetto a Sanità? Contributi finanziari a persone e famiglie rispetto a Servizi?), ma ristrutturare lo stesso sistema fiscale, con il quale si finanzia il SSN: la tassazione degli italiani, che è un misto di “paradiso e inferno”.
L’unica imposta progressiva – come ricordava Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera (15/1/2024) – è l’Irpef, pagata solo dal 42% dei contribuenti (dipendenti e pensionati); le aliquote massime sono ridotte (un tempo 72%, ora 43%) mentre evasione ed elusione sono fra le più alte d’Europa e abbiamo una tassa di successione – un unicum – quasi inesistente!. Ciò consente, come scriveva appunto de Bortoli, a una ristretto gruppo di concittadini di detenere 200 miliardi di dollari nei paradisi fiscali, pari al 10% della ricchezza mondiale offshore! Un sistema fiscale così congeniato non consente adeguate politiche di welfare e tanto meno di finanziare la Sanità pubblica nella misura in cui gli autori giustamente prospettano.
L’altro fattore è rappresentato dalla finanziarizzazione della sanità. Un fenomeno assai accentuato negli Stati Uniti in cui “…la politica sanitaria riguardo a qualità, equità e costi deve fare i conti con l’influenza emergente del settore finanziario all’interno del sistema sanitario… e in cui i mercati finanziari hanno per obiettivo la crescita dei profitti a breve termine e la distribuzione di questa crescita ad attori finanziari esterni agli enti sanitari” (The Financialization of Health in the United States, N. ENGL. J. MED., 390:2, January 11, 2024).
La finanziarizzazione è in atto anche in Italia. La lettura dei giornali finanziari è piena di notizie in merito: Il Gruppo San Donato cede il 20%; opzione Borsa. Penta Investiment è un fondo private equity con la più grande catena di ospedali e ambulatori dell’Europa dell’Est e ha acquisito 3.000 farmacie in Italia. La Exor (Elkann) ha investito 4 miliardi nel settore salute e acquisisce fra l’altro l’Institute Mérieux. La Kos, controllata dalla CIR (De Benedetti) con 24 strutture (RSA) sta attuando una serie di cessioni e di investimenti…
Si tratta di un processo che accentua una caratteristica dell’impresa privata che, come ricordava l’economista Milton Friedman “…ha soltanto una responsabilità sociale: usare le proprie risorse e impegnarsi nelle attività finalizzate ad aumentare i suoi profitti, nel rispetto delle regole del gioco, ossia stare nella competizione aperta e libera senza comportamenti fraudolenti” (The New York Times, 13/9/1970).
Per interagire in ambito sanitario con tali realtà sarebbe necessaria, come suggeriscono Banchieri e Vannucci, una regolamentazione e pianificazione pubblica particolarmente efficace. Ma le regole sono poche e lasche e la capacità programmatoria limitata, per un progressivo depauperamento dell’appartato pubblico (quello che viene definito, spesso spregiativamente, come “burocrazia”).
Siamo infatti il paese con il più basso numero di dipendenti pubblici (rispetto alla popolazione) di Svezia, Usa, UK, Francia, Spagna, Grecia e, perfino della Germania, per la quale i dipendenti sanitari non sono conteggiati fra quelli pubblici!. In tale situazione, “…in carenza di personale qualificato in grado di valutate le necessità, analizzare i mutamenti in corso, prendere decisioni conseguenti e assumersene le responsabilità” (Gabbanelli – Ravizza, Dataroom. Corriere della Sera 22/1/2024) vengono chiamati da Ministero, Regioni e Aziende sanitarie i Big della consulenza, che sono poi gli stessi che consigliano la finanza privata per la realizzazione di investimenti in tale settore!
Queste riflessioni non sono certo ottimistiche. Mi consolo con quanto affermava Umberto Eco: “Non tutti gli ottimisti sono fatui, ma tutti i fatui sono ottimisti”.
Credo tuttavia che le proposte e ipotesi espresse nei due interessanti contributi vadano inevitabilmente inserite in un contesto di cui si evidenzino le problematiche fondamentali, per affrontarle consapevolmente.
Marco Geddes da Filicaia
25 gennaio 2024
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