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Tutto qui? Ci sono voluti dieci anni cinque mesi e nove giorni, tre giunte regionali (nell’ordine Cota, Chiampa e Cirio), fiumi di parole promesse rinvii e infine un barnum pre-elettorale con le povere spoglie di un elefante scorrazzate su e giù per Torino, affinché Alberto Cirio & Co potessero annunziare – in pompa magna e in vista delle urne – «la rinascita di uno dei luoghi più̀ iconici del Piemonte» (esagerati!), ovvero quel Museo Regionale di Scienze Naturali la cui riapertura è diventata, nell’arco di due lustri, il mistero buffo della città e un’icona dell’inanità della pubblica amministrazione.
Finalmente adesso qualcosa succede. Bene. Ma non benissimo. Fossi nei panni di Cirio & Co, per non far la figura del gradasso io mi asterrei da trionfali tagli del nastro e non mi allargherei a dichiarare che «il Museo torna a essere fruibile». «Fruibile» mi pare un’espressione forte, se riferita al «riaperto» Museo Regionale di Scienze Naturali. Per ora io di «fruibili» ho visto tre sale. E stop. Tre sale ben ristrutturate, per carità. Ma in fondo alla seconda sala, una porticina che qualcuno ha dimenticato semiaperta, mi rivela la realtà di un cantiere ancora lontanissimo dalla conclusione.
Perbacco: in dieci anni dell’Ottocento gli operai di Ferdinand de Lesseps riuscirono a scavare il canale di Suez: altro che ristrutturare tre stanzoni. Invece nel XXI secolo, dopo dieci anni cinque mesi e nove giorni, buona parte del Museo di Scienze resta soltanto un’ennesima promessa: la promessa di riaprire «gradualmente» l’intera struttura, con ulteriori lavori negli anni a venire.
Beh, con il dovuto rispetto per la buona volontà e le migliori intenzioni, dopo dieci anni cinque mesi e nove giorni un contribuente ha il diritto di pretendere di più dall’intero arco costituzionale che in tale sprofondo di tempo ha amministrato il Piemonte. Di promesse ci hanno già riempito la testa fin da quel mattino del 3 agosto 2013 quando, subito dopo l’esplosione, un iperottimista assessore Coppola appariva certo di riaprire «entro l’estate prossima»; «Ci vorrà circa un anno e mezzo», riportavano i giornali all’inizio del 2015; «A gennaio riaprono uffici e biblioteca – dichiarava l’assessore al Bilancio di Chiamparino a novembre 2018 – entro la primavera del 2019 riaprirà anche una parte degli spazi espositivi e tra fine 2019 e inizio 2020 il resto del Muse»; «Sono fiduciosa di riaprire a primavera», si sbilanciava a gennaio del 2020 l’assessore Poggio, che ribadiva tale fiducia a gennaio del 2021 e quindi a giugno dello stesso anno: «Siamo a buon punto, ho coinvolto anche l’assessorato al Patrimonio (che in effetti sarebbe l’assessorato realmente responsabile dei lavori – e dei ritardi… NdR), sollecito gli uffici… in autunno voglio riaprire». Ovviamente non riaprì neppure quell’autunno.
Cirio, in ultimo, durante la conferenza d’inizio 2023 s’era impegnato a tenere quella del 2024 nel Museo «che di sicuro riapriremo», e ho il sospetto che questa frettolosa riapertura un po’ farlocca serva più che altro a tutelare la ciriesca fama di uomo che quando prende un impegno lo mantiene.
Vabbè, è la solita storia del bicchiere: da oggi abbiamo un museo mezzo aperto (insomma, neanche mezzo…), o mezzo chiuso (ben più che mezzo…), a seconda dei punti di vista. Però adesso l’importante è che lorsignori, paghi del risultato, non pisolino per altri dieci anni: finiscano davvero i lavori, possibilmente entro questo secolo.
E a proposito di musei chiusi mi permetto di ricordare qui lo sventurato Museo di Antropologia ed Etnografia, proprietà dell’Università e chiuso («in corso di riallestimento» precisa il sito, senza il minimo senso del ridicolo) addirittura dal 1984. Ripeto: dal 1984. Nell’ottobre del 2021 il magnifico rettore Geuna s’era impegnato a riaprilo nel 2024. Tic tac, ogni promessa è debito, e il tempo sta per scadere…
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