cosa accadrà ai mercati?- Corriere.it

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Non si sentiva pronunciare quella parola dal lontano settembre 2020: quando il rendimento del Treasury decennale americano, dal ridicolo livello dello 0,5% in cui era caduto, complice il Covid e l’estrema politica monetaria delle banche centrali, aveva cominciato finalmente a salire fino al 5% il mese scorso. Ora è bastato vedere un calo (un po’ superiore alle attese) dei prezzi al consumo e di quelli alla produzione per sentir riparlare di «deflazione». I primi sono scesi al 3,2% negli Stati Uniti e al 2,9% in Eurozona; i secondi sono crollati ben sottozero in entrambe le aree.

La fiducia nelle Borse e il crollo dell’inflazione

Il risultato è entusiasmante se si pensa che oltre un anno fa l’inflazione viaggiava sopra il 9% in America e all’11% da noi e che i prezzi alla produzione erano volati del 43% in Europa. Risentir parlare di deflazione dimostra con quanta disinvolta leggerezza parecchi operatori finanziari trattano le questioni economiche, ma questo estremismo verbale è funzionale alla tesi sposata dai mercati nelle ultime settimane: che l’inflazione è scemata e prossima all’obiettivo del 2% fissato da Fed e Bce; che le banche centrali inizieranno al più presto a tagliare i tassi d’interesse; e che le borse possono adesso risalire senza intoppi.


Le previsioni

Interessanti al riguardo le previsioni di Goldman Sachs: l’inflazione Usa (Pce, quella preferita dalla Fed) scenderà al 2,4% a dicembre 2024, il Pil crescerà del 2,1%, in linea con i consumi e gli investimenti, la banca centrale inizierà a tagliare i tassi nell’ultimo trimestre del prossimo anno e seguiterà a ridurli al ritmo dello 0,25% fino a raggiungere il 3,5-3,75% a giugno 2026. Intoppi? Nessuno, visto che il rischio di recessione è appena del 15%, ossia del tutto trascurabile.

Gli indici

Con queste conclusioni, ci si sarebbe aspettati l’annuncio di uno spettacolare rialzo a Wall Street, ma Goldman prevede l’indice S&P piatto fino a giugno e in crescita a 4.700 punti fra 13 mesi: un misero guadagno del 3,4% rispetto ai livelli dei giorni scorsi, neanche la metà di quanto potrebbero dare i titoli di Stato. Gli operatori di Wall Street sono assai più ottimisti: forse un po’ più prudenti sulla crescita del Pil, ma s’aspettano il primo taglio dei tassi già a maggio (persino a marzo per la Bce) e una borsa in netto, maggior rialzo. Fin da subito, perché la stagionalità gioca a loro favore (si sa che gli ultimi due mesi dell’anno sono statisticamente i migliori) e perché il «rally di Santa Claus» è un’opportunità imprescindibile. La borsa americana, imitata da quelle europee e dal giapponese Nikkei, ha già recuperato oltre il 10% dai minimi relativi di fine ottobre: prima, sospinta dagli acquisti forzati di chi aveva venduto allo scoperto, poi sorretta dai buyback (acquisti societari di azioni proprie), e ora assecondata dagli acquisti dei piccoli investitori (l’indice di fiducia calcolato da AAII è aumentato di 14 punti a novembre a 43,8%). Soprattutto son tornati a comprare i grandi fondi internazionali che s’erano trovati, a loro dire, troppo «scarichi» di titoli un mese fa.


I grandi gestori

Questo è quanto i gestori hanno dichiarato all’ultimo sondaggio di Bank of America. Convinti che la lotta all’inflazione sia stata vinta, che i tassi d’interesse siano destinati a scendere quanto prima, che il rischio recessione sia quasi nullo (stimato solo dal 21% degli intervistati), hanno ridotto la liquidità per comprare azioni americane e giapponesi. Ma non quelle europee. Anzi, se si vuol credere ai grandi gestori, questi avrebbero venduto sulle borse d’Eurozona, «sottopesandole» (rispetto al benchmark) di altri 4 punti, al 23%: fatto che lascia un poco perplessi, poiché l’indice Stoxx50 è cresciuto dell’8,5%, pressoché in linea con l’S&P, e il Mib di Piazza Affari, giudicato il meno interessante in compagnia di Madrid, ha guadagnato il 6,6%, quasi quanto il favorito Dax tedesco.

La contraddizione

E non è la sola cosa che non quadra nelle risposte date a Bofa dai gestori europei. Ben il 59% di costoro (il 14% più di ottobre) s’aspetta una recessione nel Vecchio continente (contro il 20% nel resto del mondo), ma quelli che stimano un rallentamento economico da noi (44%) sono molto meno di quelli che lo prevedono a livello globale (57%). E, mentre negli Usa si crede che nel 2024 miglioreranno gli utili societari, il 71% dei gestori europei dice che da noi i profitti peggioreranno.

Ipotesi «soft landing»

Nondimeno, si sostiene che l’indice Stoxx, giudicato sopravvalutato due mesi fa, sarebbe adesso parecchio sottovalutato, nonostante un rialzo di quasi il 10%: cosicché, secondo il 68%, sarebbero più che giustificati rialzi superiori al 5%, denotando un’acuta forma di dissociazione interpretabile solo con un repentino balzo d’umore. Ad agosto era comune l’opinione che le borse europee sarebbero finite in rosso il prossimo anno. Grazie alla psicologia, l’ipotesi di una recessione in Europa è venuta meno e anche da noi si accarezza la tesi del soft landing (atterraggio morbido dell’economia), senza far caso che indici manifatturieri e servizi assai negativi non consentirebbero tanto ottimismo.

Le parole di Draghi

Sono rimasti davvero pochi a prospettare una seria contrazione dell’economia in Europa e America

. Persino i pessimisti di Morgan Stanley paiono aver gettato la spugna: se una recessione dovesse capitare il prossimo anno, sarà lievissima, dicono. Qualche preoccupata considerazione si legge nelle analisi dei gestori di Kairos, e soprattutto nelle parole di Mario Draghi. «È quasi sicuro che avremo una recessione entro fine anno (nella UE) ed è abbastanza chiaro che i primi due trimestri del prossimo anno lo dimostreranno», ha dichiarato l’ex presidente della Bce al Financial Times. Ma non sarà una recessione «destabilizzante», ha aggiunto.

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