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A leggere il titolo si potrebbe pensare ad un libro che banalmente risponde alla domanda: cosa mangiava Gandhi? In realtà l’autore si preoccupa di dare spessore al connubio di pensiero e tavola rinviando alla riflessione che lo stesso Mahatma fa intorno al consumo di carne: “cominciò a crescere in me l’idea che mangiare carne fosse cosa buona, che mi avrebbe reso forte e audace”, ma poco dopo precisa che “non si trattava di soddisfare il palato”.
Il cibo non è solo alimento per il corpo. Entra a far parte della dimensione spirituale, di un cammino di ascesi che Gandhi scopre leggendo il testo sacro della cultura indiana, il Baghavadgita. Vi trova i principi etici e spirituali che fondano il concetto di rinuncia, attraverso cui passa anche il rapporto col cibo.
Di qui si sviluppa la sua scelta vegetariana come “risposta alla sofferenza” inflitta a qualsiasi essere vivente: “ciò che i vegetariani dovrebbero fare non è enfatizzare le conseguenze fisiche del vegetarismo, ma esplorare le conseguenze morali”. E in ciò rientra il tema della nonviolenza intesa anche come sfruttamento e sopraffazione dell’uomo sull’animale.
Di qui in poi siamo nel campo della ricostruzione di una società fondata sull’uguaglianza ancora una volta con il cibo al centro. Ai piaceri del palato soggiace la brama di possedere e, in prospettiva, la sopraffazione dei popoli a favore di pochi.
Al di là delle riflessioni radicali, il saggio, concluso con una serie di ricette ovviamente vegetariane, sottolinea l’attualità di certe posizioni, ma soprattutto si impegna a riempire il pensiero vegetariano di valori morali e umani ben lontani da ogni forma di moda.
Il cibo del Mahatma Gandhi
Pierpaolo Praca
Il leone verde
12 euro
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