«Io, commessa a 50 anni in via Monte Napoleone a Milano: sulle vendite ho una commissione dello 0,8%, l’azienda manda finti clienti per controllarci»

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diGiampiero Rossi

Lavora in una boutique del lusso: «Siamo sempre meno e poco pagati, ci rubiamo la percentuale sul venduto. Dopo tre mesi la gente scappa». Venerdì lo sciopero e la manifestazione del settore con comizio all’Arco della Pace

L’ultimo degli ostacoli è il «Mystery shopper» mandato dall’azienda per indagare sulla gestione dei negozi. Spesso si tratta di studenti universitari, reclutati a basso costo, i commessi li smascherano alla prima occhiata ma fanno finta di niente. Ma il lavoro nel settore del lusso è tutt’altro che una passeggiata. Gli addetti alle vendite dei luccicanti atelier del Quadrilatero della moda riassumono così il loro disagio: «Siamo sempre di meno, pagati poco, senza più formazione, gareggiando tra noi per rubarci la percentuale sul venduto. E infatti la gente scappa dopo tre mesi».

Proprio per denunciare lo stallo delle trattative sul rinnovo del contratto e soprattutto le fragilità salariali, Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs hanno indetto per oggi 22 dicembre uno sciopero del settore che coinvolge grande distribuzione e le catene commerciali, i singoli negozi, la ristorazione collettiva, le agenzie di tutto il settore del turismoalberghi compresi. A Milano è prevista una manifestazione che partirà alle 9.30 da piazza Castello con comizio finale all’Arco della pace, previsto alle 11.30.

Ma come si lavora nel segmento di commercio del lusso?  Cosa succede dietro le vetrine dei grandi e luminosi negozi affacciati su via Montenapoleone e sulle altre strade dello shopping che attirano a Milano persone da tutto il mondo? Lo racconta una lavoratrice, veterana di un marchio di quelli dalle pubblicità a loro volta lussuose, capaci di accendere l’immaginario già soltanto con il nome. Ma per evidenti ragioni, accetta di farsi intervistare soltanto a condizione del completo anonimato.

Com’è arrivata a lavorare per una griffe e in un negozio di lusso, conosciuto a livello globale?
«Questo è il lavoro che ho scelto io, ormai parecchi anni fa, e che mi ha dato tanto. Parlo diverse lingue straniere, mi piace la moda, l’arte, la creatività, il lavoro di alto livello, la magia che si può creare attorno a un brand e alla sua storia. Quindi mi ci sono calata con entusiasmo e ho imparato a mia volta a guidare i clienti all’interno di questo mondo, che ha tanto da raccontare».

Ma per farlo occorre conoscere bene l’azienda e i prodotti: c’è una formazione mirata?
«Io l’ho ricevuta, perché in passato c’era, eccome: ti mostravano le materie prime, ti portavano nelle fabbriche per vedere come si produceva ciò che poi si proponeva ai clienti in negozio, si visitavano gli atelier di sartoria, pelletteria, oreficeria… Insomma, si respirava, anche letteralmente, il prodotto e la sua storia. Si cresceva come persone e ci si sentiva parte dell’azienda».

Però ne sta parlando al passato.
«Eh sì, perché questo non si fa più, salvo pochi casi, io stessa da tempo vivo di rendita su ciò che ho visto in passato. Ma è un peccato per tutti, perché si perde quella magia che ti aiuta a trasmettere al cliente la raffinatezza del lavoro di quella conceria o della cucitura di quella giacca. E i clienti del lusso spesso sono anche ben informati su certi dettagli, bisogna essere necessariamente preparati. Ma lo sa che certi colleghi giovani non sanno neanche come si prende la misura per un orlo?».

Appunto, i giovani: ce ne sono? Attraverso quali selezioni arrivano a un punto vendita di quel livello?
«Guardi, anche noi ci dibattiamo in una costante carenza di personale tale che, per quanto ne so io, arrivano in negozio dopo un paio di colloqui. Ma non di rado dopo tre mesi se ne vanno. Abbiamo un turn over patologico».

Perché se ne vanno? Per chi decide di mettersi in gioco in quel tipo di lavoro, arrivare a una boutique di lusso nel Quadrilatero?
«Quel lusso non riguarda noi, lo raccontiamo e lo vendiamo ad altri, e basta. Ai giovani vengono proposte retribuzioni annue lorde da 23 mila euro. Quindi, appena trovano un posto che gli offre 1.500 euro salutano e ci vanno. Non ricevono grande formazione all’interno e quindi non c’è nemmeno la leva di un minimo di appartenenza al brand».

Ma quello non è un salario di ingresso? Non c’è crescita nel tempo, anche dal punto di vista delle retribuzioni?
«Ci sono gli scatti di anzianità e ci sono premi per il raggiungimento di obiettivi stabiliti dall’azienda. E poi c’è un meccanismo di premialità che passa attraverso gli incentivi alle vendite, dove però il successo di uno va a scapito dell’altro, perché il più veloce o il più furbo o il più scaltro o il più esperto può portare a casa di più. Una guerra tra poveri che impedisce qualsiasi forma di squadra, viene meno una solidarietà di cui invece ci sarebbe gran bisogno, perché dove lavoravamo in 25 adesso siamo in 12. L’azienda è in utile ma si lavora ai livelli minimi di staff e quando uno si assenta bisogna fare i salti mortali e ovviamente il “colpevole” è l’assente. Sui turni dei part-time, poi, viene chiesta la massima flessibilità ma viene contrappostala la massima rigidità. Capita di non essere in grado di organizzarsi la vita per le successive 48 ore».

Come funzionano le provvigioni sulle vendite?
«Ci sono percentuali diverse a seconda del valore del prodotto, cambia se si tratta di una maglietta, di un cappotto, di una borsa, di un orologio, di un profumo o di un gioiello. Si va dallo 0,8 per cento fino al 2,4 per cento. In teoria farebbe parte del meccanismo che ci porta a essere noi i primi narratori dei prodotti che offriamo, entra in gioco la capacità di “leggere” il cliente e di sapergli proporre qualcosa al di là di ciò che ha chiesto inizialmente, ma nei fatti si rivela spesso una competizione fra noi. Le faccio un esempio: quando c’è stato, anni fa, il boom di visitatori asiatici, noi per primi abbiamo segnalato l’opportunità di avere tra noi qualcuno di origine asiatica; però poi finiva che quella persona nuova vendeva più di tutti suscitando malumori perché si portava a casa tanti incentivi».

E come si verifica chi ha venduto che cosa?
«Ciascun venditore è associato a un codice che va sullo scontrino, risulta tutto, l’azienda compie infatti verifiche sui nostri rendimenti, controlla quanto e cosa abbiamo venduto, il valore dello scontrino medio… E poi c’è il “Mystery shopper”, un finto cliente che in realtà è mandato dall’azienda per verificare come ci comportiamo in negozio. E poi succede che qualcuno venga convocato per un report negativo motivato da un saluto dato male o perché non ha proposto quel tal prodotto da abbinare, e cose così. E non conta se quel giorno, magari, avevi la febbre o altro. Ma spesso si tratta di studenti universitari e noi li individuiamo subito».

Insomma, una vita tutt’altro che lussuosa.
«Ovviamente c’è chi sta meglio e chi sta peggio, io parlo anche con colleghi di altre aziende e so di situazioni migliori e peggiori della nostra».

Ma che effetto fa trascorrere le giornate a contatto con il lusso degli altri?
«Bisogna pensare che si tratta soltanto di un lavoro e non lasciarsi destabilizzare, tra l’atro offre anche la possibilità di avere a che fare sia con persone interessanti sia con clienti che ti fanno sentire una specie di accessorio. Quando vediamo qualche giovane collega che magari si atteggia un po’ perché si sente parte del mondo del lusso, gli ricordiamo noi che quello dei nostri clienti è un altro pianeta».

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22 dicembre 2023 ( modifica il 22 dicembre 2023 | 08:40)

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