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di Ettore Jorio
La programmazione è l’unico strumento che la garantisce, sempreché venga seguita da una sua corretta concretizzazione, la più attualizzata possibile agli ulteriori bisogni intervenuti.
18 DIC –
Le alchimie non servono per garantire la salute. La programmazione è l’unico strumento che la garantisce, sempreché venga seguita da una sua corretta concretizzazione, la più attualizzata possibile agli ulteriori bisogni intervenuti.
Tutti i problemi (i drammi, meglio) che hanno trasformato la salute in malattia e, quindi, anche in disagi e morti sono riconducibili rispettivamente ad:
un Piano sanitario nazionale che non esiste più dal 2006;
una mancata rilevazione del fabbisogno epidemiologico che ha certificato l’incoscienza delle Regioni a programmare a capocchia;
un territorio ignorato completamente e abbandonato a se stesso;
una integrazione della sanità con il sociale finanche urlata ma mai realizzata;
un finanziamento basato ancora sulla spesa storica;
una ripartizione delle risorse mal concepita e mal controllata;
un esercizio delle politiche regionali a favore del clientelismo concretizzato con gli erogatori privati;
una selezione dei manager della salute con criteri che neppure in Uganda (per dirla alla Gaber);
un colpevole non aggiornamento della programmazione anti-pandemica che avrebbe meritato qualche finestra con le sbarre, piuttosto che cadere nel dimenticatoio, così come accaduto per gli acquisti irragionevoli di mascherine;
un supporto tecnologico, a cominciare dalla telemedicina, messo in soffitta perché oggetto di business da organizzare.
Un elenco che potrebbe andare avanti all’infinito, specie stigmatizzando le politiche universitarie che hanno impedito con il numero chiuso la disponibilità degli operatori necessari, la programmazione del fabbisogno di personale che nessuno ha fatto e quelle attività sindacali che hanno detto tutto e il contrario di tutto, tranne che pretendere ciò che avrebbero dovuto nell’interesse dei rappresentati e della collettività lasciata a secco di assistenza.
Tutto questo sta comportando rimedi dell’ultima ora, passando dai medici di provenienza degli stati latinoamericani, ai “reduci” richiamati in servizio, all’allungamento della permanenza nelle corsie e negli studi dei medici di famiglia convenzionati. Ben ci stanno, ma non è affatto sufficiente fare ciò atteso che è difficile puntare sull’efficienza professionale di Highlander, l’ultimo degli immortali.
Conseguentemente, occorre ripensare a soluzioni diverse che soprattutto impediscano il ricorso a quelle orribili esperienze dei “medici a gettone”, nate con la ratio di speculare sulla necessità di assistere le persone, pretendendo retribuzioni da nababbi.
Ebbene, proprio per questo motivo il modo più adeguato per assumere entrambi i risultati, risolutori per garantire l’assistenza all’utenza e la continuità del servizio, si avvii – con l’approfondimento di esperti lavoristi – un processo di iper-retribuzione in favore di medici e infermieri, almeno fino a quando il fabbisogno di personale risulterà soddisfatto nell’ordinarietà. E già, se devo assicurare retribuzioni esose a quelli a gettone, lo faccio in favore degli organici, anche di quelli che diverranno tali, soprattutto per assicurare turnazioni degli uguali, in quanto tali funzionali a familiarizzare con gli ammalati.
Non vi è dubbio che nulla potrà avvenire di positivo se non si realizzino due circostanze che diano certezza al territorio: le case di comunità e gli ospedali di comunità, sulle quali Governo e Regioni (e anche UE) stanno sadicamente giocando; le condizioni dei medici di famiglia, da invitare ad una maggiore qualità e quantità di assistenza, a fronte tuttavia di un aumento dell’età pensionabile e di qualche incentivo premiale.
Insomma, il PNRR non può passare da elemento di grande entusiasmo ad una promessa sino ad arrivare ad una delusione.
Ettore Jorio
18 dicembre 2023
© Riproduzione riservata
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