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«Mamma, mi devi portare fuori di qui. Non ce la faccio più. Devi chiamare Ilaria Cucchi, qua mi fanno fare la fine di Stefano».
Oggi che piange disperata sulla bara di suo figlio, Roberta Faraglia non si dà pace. «Se solo gli avessi dato ascolto quindici giorni fa, chissà, forse sarei riuscita a portarlo fuori da quell’inferno dove me l’hanno ucciso. Ilaria Cucchi l’ho chiamata ]ma solo venerdì, poche ore prima che Matteo si uccidesse».
Signora Faraglia, Matteo si è tolto la vita. Perché dice che glielo hanno ucciso?
«Perché mio figlio aveva un disturbo psichiatrico accertato, era bipolare, in carcere non ci poteva stare. Tantomeno in isolamento, senza nessuno che lo controllasse, impaurito e agitato com’era. Venerdì mattina, nell’ultimo colloquio che abbiamo avuto, lo ha detto a me e a suo padre davanti alle guardie penitenziarie e ad un avvocatessa: “Mamma, mi ha detto, se mi riportano giù in isolamento mi impicco”. Io ho chiesto aiuto a tutti, nessuno mi ha dato ascolto e hanno lasciato che si suicidasse».
Ci racconti quell’ultimo incontro con Matteo.
«Venerdi mattina, il 5 gennaio, dopo le 11. Io e mio marito siamo andati a trovarlo in carcere come sempre, ma invece del solito parlatorio ci hanno portato da un’altra parte. Quando ho chiesto spiegazioni, mi hanno detto che era stato portato in isolamento perché aveva aggredito una guardia. Matteo era agitatissimo, ci ha raccontato che la mattina era stato picchiato da un agente mentre altri due lo tenevano fermi, che aveva paura di stare in quella cella da solo, al freddo, senza finestre. Stava male, io sono un’operatrice sanitaria, lo capisco, conosco mio figlio. Ho capito subito che c’era qualcosa che non andava, che non gli davano le sue medicine. Ho provato a rassicurarlo, gli ho detto che a breve lo avrei tirato fuori di lì per portarlo in comunità, di resistere ancora due giorni. Era veramente sfinito. Ma quando lo hanno portato via, avevo il cuore piccolo piccolo e non me ne sono andata via subito».
E cosa ha fatto?
«Intanto ho chiesto rassicurazioni alle guardie, le ho implorate che non lo lasciassero solo. Ho chiesto aiuto all’infermiere che era venuto per dargli una terapia che non gli hanno invece voluto far prendere, ho chiesto di poter parlare con il medico. “Oggi non c’è nessuno, non possiamo aiutarla”, mi hanno risposto. Ho chiamato il cappellano, gli avvocati, il tutore che gli era stato nominato. Ho detto a tutti che Matteo si voleva ammazzare. Nessuno mi ha ascoltato. “C’è il weekend di festa, poi ne parliamo”. Poi ho scritto a Ilaria Cucchi e sono andata alla posta per mandar e a mio figliogli un telegramma: “Stai tranquillo, nessuno ti abbandona, non sei solo. Ti voglio tanto bene. Mamma” Speravo che gli sarebbe arrivato sabato mattina. E invece…».
Quando ha saputo cosa era successo?
«Venerdì sera, ho ricevuto una telefonata: “Dobbiamo darle una brutta notizia. Suo figlio si è impiccato in cella”. Sono rimasta per un’ora da sola paralizzata in auto, senza avere la forza neanche di tornare a casa e dirlo a mio marito. Come si è impiccato? Gli avevo portato delle patatine, degli affettati e non me li hanno fatti entrare per motivi di sicurezza. Quando sono entrata in carcere mi hanno fatto togliere la cintura del cappotto. E lui invece è riuscito ad impiccarsi in cella. Come è possibile? Ma adesso io voglio dire tutto».
Cosa vuole dire signora?
«Adesso denuncio tutti. Denuncio il carcere e lo Stato che me lo ha ammazzato. Non lo faccio per soldi ma per ridare a mio figlio quella dignità che lo Stato gli ha tolto da quando aveva 15 anni. Era un ragazzino incontenibile, sempre agitato, gli hanno diagnosticato un disturbo bipolare, poi è arrivata la droga. È stato due anni in comunità, poi gli avevano dato una pena alternativa a casa che gli consentiva di lavorare per scontare pochi mesi per una condanna, ma ha sgarrato di un’ora e lo hanno buttato in carcere. Nessuno mai è riuscito ad aiutarci».
Di cosa avrebbe avuto bisogno Matteo?
«Non era cattivo, era solo fragile, tanto fragile, a dispetto del suo fisico. Chiedeva aiuto. Mi diceva: «Devo trovare qualcuno che mi leva questa angoscia dalla testa, ho la testa piena di sofferenza. E invece lo hanno sbattuto in carcere per giunta dicendo che non era un soggetto a rischio. Ma aveva un amministratore di sostegno e ci sono le pec dell’avvocato al carcere che dimostrano il contrario. E le sue cartelle mediche. Ma adesso è tardi, mio figlio sta qui chiuso in una bara, davanti a me e non può più parlare. Lo farò io al posto suo, gliel’ho giurato».
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