L’Istria senza nulla tacere- Corriere.it

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Rimuovere il ricordo di un crimine vuol dire commetterlo di nuovo», ha detto sabato a Basovizza il sindaco di Trieste Roberto Dipiazza. Ha ragione. E così Giorgia Meloni quando ricordato che «nessun tentativo riduzionista, negazionista o giustificazionista di quella tragedia, che spesso ancora riemerge, potrà mai oscurare» la vicenda di centinaia di migliaia di italiani dell’Istria e della Dalmazia costretti ad andarsene dalle loro terre e di migliaia uccisi o scaraventati ancora vivi nelle lame del Carso. Mai.

Proprio per questo però è un peccato che ancora una volta e nell’occasione più solenne, mentre rivendicava d’essere il primo premier a commemorare al sacrario l’orrore delle foibe (33 anni dopo Francesco Cossiga e altri quattro capi dello Stato), chiedendo «perdono a nome delle istituzioni della Repubblica per il silenzio colpevole che per decenni ha avvolto le vicende del nostro confine orientale», non abbia fatto un cenno alla tragedia parallela e antecedente. Quella dei «vicini di casa» sloveni e croati che su quel confine orientale furono vittime della più brutale violenza fascista. Violenza che, sia chiaro, non giustificò affatto le vendette titine. Men che meno i pudici balbettii a sinistra di chi come Achille Occhetto sostiene di «non aver saputo nulla delle foibe fino al 1989». Ma che sarebbe ora fosse riconosciuta anche dalla nostra destra, che in un parallelo «silenzio colpevole» è ancora immersa.

«Di fronte a una razza come quella slava inferiore e barbara non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone», tuonò Mussolini già il 22 settembre 1920 nel teatro di Pola, due anni prima della marcia su Roma: «Penso che l’Adriatico è nostro» e «i confini d’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche…». Dunque «credo che si possono più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani!». Non era una sparata muscolare: era un programma di governo.

Primo obiettivo, appena al potere, è la scuola. Nel 1925, scrive Annamaria Vinci in Sentinelle della patria. Il fascismo al confine orientale, «è approvato un decreto legge che consente solo l’uso della lingua italiana nelle scuole, eliminando così qualsiasi forma di gradualità prevista inizialmente». Allo stesso tempo viene stabilito che «solo i sacerdoti di cittadinanza italiana siano investiti dei benefici ecclesiastici. Con lo stesso articolo, inoltre, la conoscenza della lingua italiana è resa obbligatoria per i titolari delle parrocchie e delle diocesi». Una nazione, una lingua.

Va da sé che nel 1927, ricorda Raoul Pupo in Adriatico amarissimo, «vengono allargate alla Venezia Giulia ed alla provincia di Zara le disposizioni già emanate nel gennaio dell’anno precedente per il Tirolo meridionale, in merito alla “restituzione in forma italiana” dei cognomi di origine italiana o latina che dalle autorità austriache erano stati tradotti in altre lingue o deformati con grafia straniera». È l’avvio di «un’opera di massiccia italianizzazione dei cognomi, che avviene d’ufficio senza accertamenti e senza consultare gli interessati. (…) Dunque, Sirk come si trasformerà? Dipende, perché la scelta di condurre l’operazione su base provinciale può far sì che tre fratelli residenti a Trieste, a Gorizia ed in Istria diventino rispettivamente Sirca, Sirtori e Serchi. Ovviamente, i cugini residenti oltre confine rimangono Sirk». Di più: «Agli uffici anagrafici viene imposto non solo di iscrivere tutti i nuovi nati con nomi italiani, ma anche di cambiare con effetto retroattivo i nomi slavi già presenti. Lo stesso sono autorizzati a fare gli insegnanti con i registri scolastici. (…) Scritte ed insegne slave quindi devono sparire, come pure le lapidi funerarie — almeno quelle nuove — e financo le scritte in sloveno e croato sulle corone mortuarie».

Cancellare ogni forma di quella cultura mista dove italiani, tedeschi, sloveni, croati si sono mischiati per secoli è un’ossessione. E man mano, con l’opposta e conflittuale «precisazione insistita della propria identità etnica», come la chiamerà lo scrittore italo-slavo Fulvio Tomizza, crescerà l’odio. Gonfiato a dismisura dalla scelta più scellerata: l’aggressione a quella che Mussolini battezza come «la provincia di Lubiana». Ci vivono gli slavi? Non importa, spiega il «Foglio d’ordini. Parla il Duce!» del 10 giugno 1941: «Quando l’etnia non va d’accordo con la geografia è l’etnia che deve muoversi; gli scambi di popolazione e l’esodo di parti di esse sono provvidenziali perché portano a far coincidere i confini politici con quelli razziali». Due anni prima, con le Opzioni del 1939 firmate con Hitler, il quale illudeva i sudtirolesi con lusinghe di ogni genere, si è «limitato» a invitare i tedeschi ad andarsene «con le buone». Adesso vuole il pugno di ferro: «Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci d’essere duri (…). È incominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto, per il bene del Paese ed il prestigio delle forze armate (…). Non vi preoccupate del disagio economico della popolazione. Lo ha voluto! Ne sconti le conseguenze». Il generale Mario Roatta lo mette per iscritto nella circolare n. 3C del marzo 1942: «Eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti. Perseguiti invece inesorabilmente saranno coloro che dimostreranno timidezza e ignavia».

«Anche se la presenza dell’Italia fascista nei Balcani ha superato di poco i due anni, i crimini commessi dalle truppe di occupazione sono stati sicuramente, per numero e ferocia, superiori a quelli consumati in Libia e in Etiopia», riassumerà in Italiani brava gente Angelo Del Boca. Basti dire che decine di migliaia di sloveni e croati (almeno 35 mila secondo gli studiosi italiani più prudenti, 120 mila secondo gli sloveni) furono rastrellati e deportati nei campi di concentramento di Arbe, Gonars, Monigo, Chiesanuova, Visco, Renicci, Colfiorito… E moltissimi ci lasciarono la pelle dopo atroci patimenti: 11 mila per gli slavi, almeno 4 mila per Brunello Mantelli e Costantino Di Sante, curatori della agghiacciante mostra virtuale A ferro e fuoco, 7 mila per Alessandra Kersevan, autrice di Lager italiani appena edito da Nutrimenti: «Nei soli atti del Comune di Gonars sugli internati del campo di concentramento è registrata la morte, fra il novembre del 1942 e il giugno del 1943, di almeno 71 bambini di meno di un anno, quasi tutti con la diagnosi di “atrofia” o “atrofia grave”, cioè per la scarsa alimentazione». Più quelli più grandicelli. E le donne. E i vecchi. E tutti quelli di altri lager…

«La memoria non è una sola», titolava a tutta pagina una copertina di cultura del «Corriere» del 2010 con le riflessioni del grande scrittore sloveno Boris Pahor, che spiegava come fosse «giusto ricordarsi dell’esilio istriano e delle foibe ma è ingiusto il non raccontare prima il genocidio culturale degli sloveni e dei croati». Non è così, diceva, «che si crea relazione di equità e di amicizia tra vicini». Sono passati tre lustri, da allora. E il «Corriere» ha continuato a ricordare, insieme con le foibe (ci solo dal 1944 ben 1.521 articoli con le parole «foibe» e «titini» nel nostro archivio: è falso che per decenni ne abbia parlato solo la destra) anche gli orrori tragici del fascismo. Il presidente sloveno Borut Pahor e quello italiano Sergio Mattarella, tenendosi nel 2020 per mano a Basovizza davanti al monumento agli infoibati italiani e al cippo in memoria di quattro sloveni fucilati dai fascisti, senza rancori e rigurgiti, hanno capito. Altri meno.

Giorno del Ricordo. Il romanzo di Carlo Sgorlon in edicola per un mese con il quotidiano

È in edicola per un mese con il «Corriere della Sera» e con il settimanale «Oggi» il romanzo dello scrittore friulano Carlo SgorlonLa foiba grande, in vendita al prezzo di e 9,90 più il costo della testata a cui è allegato il volume. Pubblicato originariamente nel 1992, adesso riproposto in occasione del Giorno del Ricordo del 10 febbraio, il libro è ambientato in Istria e rievoca le tragiche vicende novecentesche del nostro confine orientale. Questa edizione del romanzo di Sgorlon contiene anche una postfazione dello storico Gianni Oliva, il quale si sofferma sulle ragioni che, nel dopoguerra, hanno indotto a mettere la sordina alla tragedia vissuta dai nostri connazionali giuliano-dalmati, fuggiti in massa dai territori annessi alla Jugoslavia comunista del maresciallo Tito (pseudonimo di Josip Broz) in seguito al trattato di pace firmato a Parigi appunto il 10 febbraio del 1947. Il Giorno del Ricordo è stato istituito nel 2004 allo scopo di commemorare le stragi delle foibe, compiute dai partigiani jugoslavi fra il 1943 e il 1945, e l’esodo dei giuliano-dalmati dalle loro case. Furono oltre 300 mila gli italiani che non si adattarono a vivere sotto la dittatura comunista di Belgrado e si rifugiarono nel nostro Paese. Il confine orientale italiano venne fissato con il trattato di Osimo del 1975. È stato confermato anche dopo la dissoluzione della Jugoslavia e la nascita della Slovenia.

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