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Altro che negazionismo climatico. Una volta al governo, la destra deve sperimentarli proprio tutti i contrappassi danteschi. E così sabato, complice una giornata di sole come solo Roma sa regalarne a dicembre, la gente di Atreju ha dovuto soffrire in prima persona l’effetto-serra. Eh sì, perché nelle due enormi sale con copertura trasparente e plastificata si schiattava letteralmente di caldo. Né aiutava la gastronomia agli stand: autarchica e genuina, in perfetto stile Coldiretti, trasudava di lasagna, porchetta e carbonara.Benvenuti dunque a Castel Sant’Angelo, un tempo la prigione papalina dai cui spalti si lanciò nel vuoto la Tosca (proprio in questi giorni all’Opera di Roma). Ma ne valeva la pena: per Giorgia Meloni e i suoi compagni di avventura (si può ancora dire compagni?) la prima Atreju di governo è un grande successo di partecipazione ed entusiasmo.
Vanta un albero di Natale finalmente all’altezza della Capitale, dopo gli spelacchiamenti della giunta Raggi e i lavori in corso di quella Gualtieri (in Piazza Venezia quest’anno c’è una gru al posto dell’abete). Esibisce una pista di ghiaccio con contorno di pattinatori della politica in cerca di equilibri più avanzati (vi si aggirava ieri anche l’ex pentastellata Carla Ruocco, in preda a una dichiarata «ammirazione per le sorelle Meloni»: non una sola, tutt’e due). E soprattutto fa compiere il salto quantico ai Fratelli d’Italia: da setta di giovani a caccia di idee per uscire dal ghetto in cui la storia aveva messo i padri, a partito-nazione così stabilmente al governo da potersi permettere l’ossequio di un premier in carica (Sunak), e ancor di più di un cittì in carica (Spalletti): gente che non si scomoda per un politico di passaggio.
Tutto però in questo trionfo del nuovo potere, detto «Orgoglio italiano», sembra fatto apposta per confermare la vera ossessione di Giorgia Meloni, e anche ciò che la rende agli occhi di molti italiani tuttora (chissà per quanto ancora) diversa da altri più sperimentati premier del passato: la tigna nel mostrare di avere radici, di non concepire la conquista del governo come l’obiettivo ultimo della politica, e anzi la presunzione di voler rifare l’Italia, e magari pure gli italiani. Come si conviene alla sua «band of brothers», ex ragazzi convinti di avere una missione fin da quando erano solo «gabbiani», e che oggi rifanno Atreju per dire alla loro gente: «Vedete, il potere non ci ha cambiato».
In realtà un po’ sì, li ha cambiati. A Giambruno per esempio, l’altro ieri tornato in pubblico, ha cambiato la vita, e non per il meglio. Ad Arianna pure: la sorella uscita dall’ombra che ha vissuto proprio ad Atreju la sua prima giornata da padrona di casa, «capa» del partito di maggioranza relativa, colei che ha smontato il detto secondo il quale «dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna» perché davanti a lei c’è solo Giorgia. (Il potere non ha cambiato invece, ahinoi, Paolo Corsini, rimasto il militante che ripete «Noi, Fratelli d’Italia» anche ora che è direttore in Rai, e il «noi» dovrebbe dismetterlo per evitare che diventi la parodia di un «A chi la Rai? A noi!»).
La premier e leader di FdI Giorgia Meloni sul palco di Atreju
Ma in fin dei conti questo dilemma del potere, croce e delizia di ogni Movimento che si fa Stato (ricordate la parabola de Cinque Stelle?), è un topos della politologia. Ed è incarnato alla perfezione in ciò che potremmo chiamare «lo stile-Giorgia». La premier ha visto la fine che ha fatto il «nuovismo» di Matteo Renzi, una volta a Palazzo Chigi. E dentro di sé ha deciso che non si farà rovinare dagli abiti firmati. Da un anno è presidente del Consiglio, ma fa di tutto per sembrare ancora la leader dell’opposizione che fu. L’avrete vista nelle due recenti giornate alla Camera e al Senato: i discorsi introduttivi pacati e da statista, le repliche furibonde e da comizio (molto efficaci, a dire il vero; tranne che per qualche scivolata polemica di troppo, come il fax che avrebbe dovuto inchiodare Conte e Di Maio al Mes e la data invece li assolveva).
Naturalmente questo sforzo continuo di fare il «surf» sull’onda dell’opinione pubblica è un lavoro usurante anche per una brava come lei, una che si applica e in pochi mesi si è conquistata il rispetto del club (maschile) dei potenti del mondo. Spalletti, per esempio, va bene come patriota, anche perché viene dopo Mancini, e ora è quello che per la bandiera italiana ha rinunciato ai petrodollari arabi. Ma già più difficile è mettere nel Pantheon Santiago Abascal, il leader di Vox che parla domenica e che vorrebbe «impiccare per i piedi» il premier spagnolo Pedro Sánchez (che poi parlare di corda in casa dell’impiccato, non si fa). Così come non è agevole assorbire l’icona Elon Musk, oggi il vero capo della nuova destra mondiale, ma pur sempre un ricco, un capitalista che fa affari senza confini, uno che si preoccupa della natalità degli italiani dall’alto di undici figli, uno dei quali avuto con la pratica dell’utero in affitto, la stessa che il governo Meloni ha trasformato in reato universale (Lollobrigida ha fatto finta di niente).
Ma tant’è: domenica Atreju chiude. E dall’asse Londra-Tirana (c’era anche Rama), l’Italia di Giorgia Meloni dovrà tornare a occuparsi dell’asse Parigi-Berlino. Cosa più difficile. Ma decisamente più vitale.
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