La Corte dei conti stigmatizza la “svalutazione” del diritto alla tutela della salute | Sanità24

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L’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024 della Corte dei conti, tenutasi il 13 febbraio scorso, è stata l’occasione per la Magistratura contabile di stigmatizzare l’intervenuta “svalutazione” del diritto alla tutela della salute, sancito dalla Costituzione. Ciò perché “assicurato” da sistemi sanitari diversamente (in)capaci di renderlo esigibile universalmente, molti dei quali avvezzi a favorire, tra l’altro, una crescita abnorme – ben oltre le regole e la ragionevolezza – della erogazione affidata a privati. Il tutto, a discapito di quella pubblica che riesce appena a difendersi attraverso l’esigibilità dei LEP garantita dai propri IRCCS (21), atteso che quelli privati (30) rappresentano l’offerta assistenziale maggiormente attrattiva della domanda disperatamente migrante. Quella che costa così tanto, in mobilità passiva, ai sistemi regionali che non funzionano da de-finanziarli per centinaia di milioni di euro all’anno, impedendo loro – unitamente alla incapacità di formulare un progetto di ristrutturazione efficiente della loro assistenza sociosanitaria – di assicurare una cura adeguata alla persona.

La Corte dei conti parla però ai sordi

Nel mentre, quindi, c’è una sanità che sta cadendo a pezzi, compiendo una vera e propria strage sociale dei ceti più deboli, il confronto politico-parlamentare – anziché accentrarsi sulle proposte di rigenerare un sistema della salute degno di questo nome – si trasforma in disputa. E non affatto di alto livello, dal momento che arriva a momenti di quasi rissa con tantissimi che urlano il contrario di quanto legiferato e sostenuto in precedenza. Per non parlare di ciò che accade fuori dal Parlamento ove si dice di tutto e il contrario di tutto contro quanto recita la Costituzione, arrivando persino a fare la guerra ai LEP, insinuando l’idea di chissà quanto costeranno. Ciò senza ricordare che sono stati introdotti 22 anni fa e che sono “sopportati”, ma trattati male in termini erogativi, in sanità dal novembre del 2001. Dopo oltre quattro anni, trascorsi con i governi Conte e Draghi senza che gli stessi esprimessero politiche sociosanitarie, si è arrivati all’attuale Esecutivo. Tanti i danni registrati, con centinaia di migliaia di morti prodotti nella pandemia, anche per inerzia del Ssn, che ha ridotto la nazione ad un cumulo di paure per l’assistenza che manca ovunque. Persino il livello di assistenza praticata dai medici di famiglia è arrivato ai limiti della decenza, a causa dell’assenza di professionisti disponibili ad esercitare la medicina convenzionata in sostituzione di quelli che vanno in pensione.

A ben vedere, le fasi post Covid si sono caratterizzate per lo stesso cattivo livello di erogazione della salute vissuto nella pandemia, senza soluzione di continuità.

I danni della brutta abitudine della politica

Continua a mancare ciò che occorre. Addirittura si fornisce prova persino della inesistenza di buona volontà e del non attaccamento alle sorti della persona. Mancano il senso dell’autocritica e la proposta realisticamente riformista.

Nessuno si impegna per mettere riparo al gap della quotidiana messa in pericolo di vita delle persone. Nessuno ascolta le ragioni della società civile, intendendo per tale quella voce popolare che è indice di sofferenze indicibili.

A fronte di tutto questo, si registra il peggio che avanza senza ritegno alcuno, da almeno da vent’anni. Incrementa così il vecchio tema dell’abbandono delle garanzie costituzionali e si registra, persino, il decadentismo di quel privilegio chiamato concorrenza amministrata, sfregiato nella quotidianità per le “debolezze” della governance del Ssn. Il riferimento è a quella forma di quasi mercato che allargava l’offerta assistenziale, allo scopo di renderla attraverso un sano agonismo tra quella pubblica e quella privata accreditata più elevata in temini di qualità e di tempestiva godibilità.

I mali sopravvenuti

Il motivo di tutto questo è semplice: l’organizzazione sanitaria nel nostro Paese non è da anni più quella disegnata sulla ratio del 1978.

L’avvento dell’aziendalismo e, soprattutto, della mentalità mercantile, connessa alla erogazione delle prestazioni sociosanitarie, che ne è derivata ha storpiato i canoni fondativi della anzidetta concorrenza amministrata. Con questo, in poco meno di un quarto di secolo, una siffatta novità, introdotta con l’istituzione del Ssn, è stata tradotta nel peggio sistemico che si potesse all’epoca immaginare.

Quindi, da una parte una politica prevalentemente economica, ispirata alla quadratura dei conti prescindendo però da come venisse effettuata la spesa, e dall’altra il business della sanità, il terreno del diritto della tutela della salute si è imbastardito. Ciò perché è divenuta prevalente l’attrazione dei fatturati alternativi al sistema pubblico, sempre di più abbandonato a piegarsi su se stesso, verosimilmente per una precisa strategia. Da qui, la concepibile corsa di esponenti di rilievo della politica di ieri a passare da qualche anno nella soglia del management privato, specie quello di alto profilo e dai budget incontenibili, e il constatare tanti attori delle governance regionali impegnati a favorire la crescita esponenziale del numero degli accreditamenti privati, cui attribuire poi contrattualmente valori budgettari annuali sempre più ragguardevoli.

Il tutto con accreditamenti che durano ab libitum, perché si rinnovano tacitamente ovvero mediante procedure impensabili, in perfetta elusione (da parte di tutte le Regioni) delle procedure agonistiche introdotte dalla legge 5 agosto 2022 n. 118, disciplinante il mercato e la concorrenza 2021. Si badi bene, quella pretesa dall’UE a fronte del godimento delle risorse PNRR.

La lista d’attesa come strategia di ricchezza e di impoverimento dei bisognosi

A fronte di tutto questo si sono venute a creare disfunzioni notevoli con un pubblico che è oramai tutto una lista d’attesa, fatta eccezione per i raccomandati, e un privato accreditato che ci prova, in senso non esattamente etico sino a sconfinare in pratiche che, in alcuni casi, rasentano la reità. Infatti, si constata una tendenza crescente a convincere l’utente richiedente la prestazione – scoraggiandolo a frequentare anche la propria fila ingombrata dagli impegni pregressi assunti con ricetta con ticket – a ricorrere a scorciatoie a pagamento, giocando a suo favore spesso una temuta diagnosi ovvero la fretta di sapere, di frequente immotivata.

Da qui, la gente povera e diseredata che “firma le cambiali” – non più come una volta, magari per comprare una utilitaria – per afferrare una diagnosi ovvero una terapia salvavita, così come per cercare un “approdo” presso strutture prevalentemente operanti nel quadrangolo del privilegio della mobilità attiva, rappresentato da Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte. Una situazione che genera oltre quattro miliardi all’anno di export umano, arricchendo i Ssr anzidetti e impoverendo quello che parte dalle banchine massimamente site nel Mezzogiorno da sempre diseredato.

A questa faccia della medaglia ne corrisponde un’altra, rappresentativa del silenzio dei decisori nazionali e regionali che lasciano fare ai direttori generali quanto più aggrada loro ovvero quanto indicato dai loro mentori.

A tutto questo aggiungasi, l’assenza di una intellighenzia destinata a programmare la sanità nazionale (che manca da 18 anni, l’ultimo PSN è del 2006!), l’ingigantirsi di attività rendicontative, eseguite da enti pubblici non economici, che altrove non sarebbero mai nati ovvero chiusi da tempo.

Questo è un modo di agire offensivo della persona, delle sue debolezze e delle malattie ingigantite da una assistenza che non c’è e da una povertà che dilaga.Una modalità di vita che porta ad “odiare queste mura” sino a volerne scappare via. Ed è ciò che sta accadendo da anni, da quelle regioni incapaci di erogare, neppure, i LEA in perfomance ridotta.

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