«Anni di calvario. Ora sono felice. Nella mia palestra tesseramenti alias»

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Una scuola di arti marziali e ginnastica che propone alle persone iscritte il tesseramento alias. Una scuola in cui si pratica il karate, dove la presenza delle donne è massiccia, e dove lo spogliatoio è unico, senza distinzione. È l’Asd Dragon’s School fondata nel 2011 da Gabriel Corbelli, 38enne riminese che il karate lo pratica sin dall’infanzia. «È un filo che mi tiene aggrappato alle mie radici», racconta. «Sempre nel 2011 ho iniziato il mio percorso di affermazione di genere», spiega. Perché la storia dell’Asd Dragon’s School parte da lontano, ed è una storia di vita.

Gabriel Corbelli, come è nata la sua scuola di Arti marziali?
«Io e mia moglie abbiamo fondato nel 2011 l’ ASD Dragon’s School. Nei primi tempi proponevamo come disciplina solo il karate, poi abbiamo proposto anche i corsi di Ju Jitsu e la ginnastica. Siamo contenti della presenza massiccia delle donne in associazione, soprattutto nei ruoli dirigenziali e nelle arti marziali, cosa non scontata per gli stereotipi che vedono questa disciplina come prevalentemente maschile. L’ associazione si basa sull’accoglienza di tutte le persone con le proprie specificità mettendo al centro l’individuo. Ecco perché abbiamo attuato il tesseramento alias, che permette di utilizzare il nome e il genere in cui gli individui si riconoscono e l’introduzione dello spogliatoio unico, che abbatte le difficoltà provate da chi nella scelta prova disagio non riconoscendosi negli stereotipi femminili o maschili dettati dalla società. Sia chiaro: in questo spogliatoio ci sono luoghi di privacy per cambiarsi per chi vuole, ma anche zone di condivisione da vivere all’insegna del rispetto reciproco. In questo contesto è stato bellissimo constatare che non ci sono problemi di bullismo».

Chi l’ha aiutata a realizzare queste iniziative?
«Tesseramento alias e spogliatoio unico sono stati possibili grazie al lavoro fatto con AICS (Associazione Italiana Cultura e Sport), dove ricopro la carica di Responsabile Nazionale dell’area sociale del Dipartimento LGBTI, con il supporto del Presidente l’On. Bruno Molea e a tutti i collaboratori e collaboratrici che hanno lavorato perché diventasse realtà».

Iniziative che, come ha spesso spiegato sono ispirate alla sua vicenda personale. Le va di raccontarcela?
«Io ho cominciato il percorso di transizione da donna a uomo nel 2011 ed è terminato dopo sette anni. Non è stato facile ma vorrei tornare parecchio indietro lungo la linea del tempo per raccontarlo. Conservo ancora una foto scattata alle scuole elementari nel periodo di Carnevale. Ero una bambina, mi chiamavo Elena, e questa fotografia mi ritrae vestita da meccanico, indossavo la classica tuta blu con il logo dell’azienda. In sintesi mi ero vestito come si vestiva mio padre a lavoro. Ecco questa maschera che avevo scelto va inquadrata in un contrasto quasi cercato all’interno del mio ambito familiare: il 90% dei componenti sono maschi, io e mia cugina eravamo a quell’epoca le uniche femmine. E quindi eravamo un po’ le principesse della casa».

Come ha vissuto gli anni delle scuole primarie?
«Ricordo che alle scuole elementari alcuni mi prendevano in giro: mi dicevano che ero un “maschietto”. Ero competitivo, mi piaceva giocare a braccio di ferro e ‘proteggere’ le mie compagne di classe. Poi a sei anni iniziai a praticare karate, che divenne una costante nella mia vita. E ovviamente lo è ancora adesso. È un filo che mi tiene aggrappato alle mie radici. Per praticare del karate si indossa il Karategi, un capo uguale per uomini e donne: per me era una “sicurezza”, mi permetteva di non sentirmi addosso il peso dell’unica alternativa: ‘grembiule rosa o grembiule azzurro?’. La verità è che ho sempre avuto la convinzione di essere un maschio. Poi quando arrivarono le mestruazioni fu la realtà a sferrarmi un bel pugno in faccia. Credevo di essermi fatto male, di essermi tagliato».

Poi inizia l’adolescenza. Arrivano le scuole medie, poi le scuole superiori. Che periodo è stato?
«Alle medie avevano iniziato a chiamarmi “Eleno” e l’epiteto “maschietto” si trasformò in “maschiaccio”. Scelsi di difendermi conformandomi alle aspettative sociali: ero attratto dalle ragazze ma cercai di trovare un ragazzo. Un ragazzo in particolare mi piaceva ma capii che in realtà mi attraeva semplicemente perché mi sarebbe piaciuto essere come lui. Con le scuole superiori arrivò il mio primo grande amore: una ragazza che per la prima volta mi vedeva per quel che ero: persi la testa. Ma dopo un anno e mezzo arrivò il caos, i suoi genitori scoprirono tutto e mi estromisero dalla sua vita. E allora decisi ancora di fare come le altre. Conobbi un ragazzo, io avevo 18 anni e lui 24. Divenne il mio compagno, ma con una particolarità: lui per me era la mia donna ideale: sapeva pulire, cucinare, tenere in ordine la casa e come me desiderava una famiglia, dei figli».

E come è andata a finire?
«Rimasi incinta che avevo 19 anni. Anche in quel caso la realtà mi sferrò un bel pugno in faccia quando realizzai che avrei partorito io e non il mio compagno. Ci sposammo, da persona cristiano-cattolica ho ritenuto fosse la scelta giusta, ma purtroppo non lo era. Dall’amore si arrivò all’odio, alle liti con mio marito quando iniziai a spiegargli che non stavo bene. Ricordo che andai via di casa sapendo che il mio malessere era così importante che se fossi rimasto lì non avrei fatto bene a nessuno. A quel tempo facevo la guardia giurata e iniziai a vivere senza un’abitazione, in auto dormivo e in ufficio facevo tutto il resto. Poi arrivò il tempo di separarsi da mio marito che voleva che restassi a casa, ma non si rendeva conto della situazione che stavo vivendo. Divorziammo».

Insomma riuscì a cambiare vita?
«Difficile ridurre tutto a questa frase. La verità è che tentai il suicidio con la pistola d’ordinanza da guardia giurata. Il tentativo fallì anche se la pistola era carica. Una casualità, ma capii che era un segnale: la pistola era carica ma non aveva sparato. Da lì è iniziata la mia, per così dire, lenta rinascita. I rapporti con il mio ex marito erano però diventati complicati, lui voleva l’affidamento esclusivo e io cercavo di mantenere i rapporti con mio figlio».

Poi nel 2011, come ha detto, iniziò il percorso di transizione…
«Fu la mia futura moglie, psicologa, che diede un nome a quello che provavo e a consigliarmi di andare al Mit (Movimento Identità Trans) di Bologna, un consultorio dove grazie ad una serie di sedute con una psicoterapeuta: si trattava di Incongruenza di Genere. Nel 2011 ho iniziato il mio percorso di affermazione di genere e continuavano le discussioni con il mio ex marito e di conseguenza era sempre più arduo vedere mio figlio. Nelle sentenze di affidamento congiunto veniva stabilito che io dovessi vedere mio figlio in giorni ed orari precisi e questi non venivano rispettati da parte del padre, che fui costretto a denunciare. I sette anni di transizione, furono logoranti anche per questo. Il mio ex marito poi si ammalò, una malattia molto grave che degenerò, e dopo qualche anno morì. Era il 2019. Mio figlio iniziò a vivere con i genitori di suo padre che tutt’oggi se ne prendono cura. Con sua nonna, in particolare, ci parliamo giornalmente, siamo in buoni rapporti ma di fatto mio figlio, che ora ha 18 anni, non lo vedo più. Per chi è mamma come me può immaginare il dolore di non vedere il proprio figlio. In ogni casa dove sono andato ad abitare gli ho sempre fatto la camera e preparato il letto con le lenzuola pulite, ma lui non è mai venuto».

Lei come sta oggi?
«Meglio, dopo aver risolto l’ennesima difficoltà. Avevo i diplomi ottenuti nel 2009 con gradi e qualifiche per l’insegnamento, ma sopra c’era scritto il mio nome di nascita, ‘Elena’. Ho dovuto aspettare di trovare realtà e persone che mi dessero la possibilità di sostenere un esame e avere in mano un diploma con scritto sopra il mio nome d’elezione, Gabriel. D’altra parte ho il cuore spezzato di madre che non vive il proprio figlio, ma mi piace citare J-Ax : “Sarà che al posto di un bambino Dio, mi ha dato due milioni di nipoti”, mi sono trovato con dei nipoti, sono i miei allievi. Essere il direttore tecnico di una scuola come la Dragon’s School significa avere la possibilità di dare la mia parte genitoriale a queste ragazze e a questi ragazzi, anche oltre lo sport».

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